Tra sanità, sfide geopolitiche e giovani. Parla Kamel Ghribi (GKSD)
Progetti di lavoro, sanità privata e pubblica, centralità del Mediterraneo e sfide geopolitiche: ne abbiamo parlato con Kamel Ghribi, uomo d’affari che ha dedicato gran parte della sua vita alle relazioni internazionali e alla filantropia.
Kamel Ghribi, 61 anni, è presidente di GKSD Investment Holding Group, GSD Healthcare Middle East e vicepresidente del Gruppo San Donato, colosso della sanità privata italiana. Fondatore e presidente dell’associazione no-profit European Corporate Council on Africa and the Middle East (ECAM), Ghribi è un uomo d’affari di successo che ha dedicato gran parte della sua vita alla promozione di progetti umanitari. Con lui abbiamo provato a capire quale futuro immagina, alla luce delle sfide attuali e della sua convinzione dell’importanza di crescere attraverso progetti filantropici.
Da vicepresidente del primo gruppo ospedaliero privato italiano quanto è cambiato il mondo della salute dopo la pandemia? L’Oms ricorda che il benessere fisico è fondamentale come quello mentale. Ritiene che questa visione debba influenzare le competenze richieste al personale sanitario futuro, incluso il settore manageriale?
La pandemia ha posto la salute in cima alle agende globali ricordando a tutti gli Stati che non è corretto aspettare un’emergenza per rafforzare i sistemi sanitari e per investire nella ricerca.
Oltre ad essere stata un’enorme tragedia è stata una prova che ci ha insegnato, o deve insegnarci, tanto: in primo luogo a non sottovalutare i warning e a prepararsi per tempo a eventi che la storia, anche se non frequentemente, ripropone, per evitare di subirli e di patirli drammaticamente.
A livello nazionale Covid-19 ci ha dimostrato quanto importante ed efficace sia la collaborazione tra pubblico e privato e come la risposta migliore sia quella unitaria nella logica del Servizio sanitario nazionale che contempla l’esistenza di due pilastri, quello pubblico e quello privato, appunto.
A livello internazionale, dimensione che mi sta particolarmente a cuore, il principale lascito della pandemia è la consapevolezza che esiste anche una diplomazia della salute e che la cooperazione sovranazionale anche in materia di salute è cruciale per la pace e la stabilità. Basti pensare alle tante, troppe, partite che si sono giocate sul tema degli approvvigionamenti e alla distribuzione dei vaccini.
L’attenzione alla salute mentale la iscrivo all’ambito delle nuove consapevolezze che il dramma pandemico ci ha consegnato.
Il Mediterraneo ha sempre rappresentato un punto di incontro e confluenza tra diverse civiltà e culture nel corso dei millenni. Oggi, oltre alle infrastrutture fisiche, è diventato essenziale per il trasferimento di servizi, dati e informazioni. Ad esempio, il progetto PEACE per la posa del cavo che collegherà lo Xinjiang cinese all’Africa e all’Europa rappresenta un esempio di queste connessioni. Lei ha sottolineato l’importanza di “costruire ponti” in diverse occasioni. Come fondatore e presidente del Consiglio aziendale europeo per l’Africa e il Medio Oriente, qual è il ruolo che il Mediterraneo può svolgere per l’Italia e per i Paesi che si affacciano su di esso nel prossimo futuro?
Il Mediterraneo è una grande questione dalla quale derivano rischi e opportunità. I rischi saranno maggiori se non si avrà l’intelligenza di cogliere le opportunità. C’è l’instabilità, talvolta il caos, dall’altra parte del Mediterraneo. E c’è anche il rischio terrorismo e la sfida dell’immigrazione.
Ma io ho davanti ai miei occhi uno scenario diverso: la cooperazione energetica, lo sviluppo turistico, gli investimenti in infrastrutture, la creazione dell’area di libero scambio nell’ambito dell’Unione africana, il buon vicinato tra Unione europea e Paesi della sponda Sud del Mediterraneo. Il Mediterraneo è una cerniera, è un mare che unisce. Pensi alla grande questione energetica: le pipeline esistenti e quelle che verranno, il transito presente e quello crescente in futuro delle navi che trasportano GNL verso i rigassificatori, i grandi giacimenti di gas sul versante orientale del Mare Nostrum, pongono il Mediterraneo in una posizione ancor più strategica che in passato.
Credo che l’Italia e l’Unione europea debbano porsi il tema del ruolo che vogliono svolgere in questo scenario. Ogni vuoto lasciato dall’Unione europea sarà riempito. E Russia, Cina, Turchia non stanno certo a guardare.
Senza considerare che, nella prospettiva delle relazioni transatlantiche, Washington ha tutto il diritto di considerare quello del Mediterraneo come un compito da svolgere da parte degli amici e alleati europei. Ci vuole un grande commitment politico da parte dell’Unione europea, altrimenti perderà ruolo e prestigio nel gioco delle grandi potenze: se trascura il Mediterraneo, l’Unione avrà conseguenze gravissime. Viceversa, se si impegnerà con sincera convinzione e adeguati investimenti, il dividendo geopolitico, di prestigio, stabilità e sicurezza, nonché economico, sarà straordinario.
L’Italia, Paese di frontiera affacciato sul Mediterraneo, è fondamentale nell’orientare la rotta europea. Del resto, sarebbe il primo Paese a pagare le conseguenze degli errori o dell’inerzia europea.
La crisi migratoria torna al centro del dibattito politico, pensiamo alla tragedia di Cutro. Nella sua carriera ha avuto modo di confrontarsi con leader politici di entrambe le sponde del Mediterraneo: come ritiene potrebbe essere affrontata la crisi migratoria?
La migrazione è una delle sfide che nascono dal Mediterraneo, ma basta alzare lo sguardo per capire che il tema riguarda il mondo intero. È nella natura umana muoversi e anche lasciare il proprio Paese per fuggire da guerre e persecuzioni oppure per migliorare le condizioni di vita. La questione non si può cancellare dall’agenda politica e neanche risolverla in modo definitivo e radicale. L’unica via è gestirla con lungimiranza strategica, favorendo la stabilità e la crescita dei Paesi di origine, transito e partenza dei migranti. Per altro verso occorre assicurare un giusto mix tra umanità e rigore nel governo dell’accoglienza. Anche in ciò è decisiva, a mio avviso, una visione e un’azione dell’Unione europea che non può lasciare soli i Paesi più esposti.
La guerra in Ucraina e le drammatiche conseguenze sociali ed economiche hanno mostrato all’Europa come crescita e sviluppo possano portare a posizioni dominanti da parte di interi sistemi geopolitici in ambiti strategici per la tenuta del tessuto socio-economico. Un esempio fra tutti sono il gas e le materie prime necessarie per la transizione energetica: come ha ricordato la Governatrice della Banca Centrale Europea, l’Europa dipende dalla Cina per il 98% delle sue forniture di terre rare. Come garantire, in questo momento di permacrisi, una crescita equa, che non lasci indietro nessuno? E come mediare fra i diversi interessi in gioco che potrebbero comportare nuove tensioni geopolitiche?
Nessuno ha la ricetta magica per garantire pace, stabilità e sicurezza. La storia del mondo è segnata da conflitti dolorosi e da collaborazioni che hanno segnato fasi di straordinario sviluppo.
Penso che occorra sempre di più sforzarsi di definire agende globali a livello di Nazioni Unite e trattati di libero scambio che favoriscano i commerci e gli affari tra Paesi in modo da favorirne la crescita e disincentivare i conflitti.
In questo tempo così difficile il mondo non ha bisogno di protezionismi, ma di difendere le conquiste della globalizzazione e di correggerne le storture.
Il Gruppo San Donato è particolarmente attivo negli investimenti sanitari anche fuori dall’Europa, in particolare in Africa e nel Medio Oriente: a dicembre è stato annunciato un accordo con il ministero della Sanità dell’Egitto per la gestione di un ospedale al Cairo, primo esperimento di partecipazione pubblico privato per la sanità egiziana, con un gruppo imprenditoriale italiano. Quali differenze riscontra nell’approccio al business in tali realtà? E quali competenze ritiene siano necessarie in questi casi?
Posso dirle che attraverso noi cercano competenze che possano rafforzare i loro sistemi sanitari e renderli sostenibili nel lungo periodo. In primo luogo cercano, e noi siamo in grado di offrire, competenze mediche di eccellenza che possano dare le migliori cure ai loro pazienti. La nostra filosofia, che peraltro risponde alla loro domanda, è quella di trasferire know how e di garantire che l’esperienza di luminari e di donne e uomini in trincea nei nostri ospedali possa garantire loro di imparare e rendersi progressivamente autonomi. In questo senso si collocano anche le attività di vera e propria formazione che svolgiamo coinvolgendo anche la parte universitaria del Gruppo San Donato che può contare su eccellenze il cui rilievo è riconosciuto a livello internazionale.
In qualche caso la richiesta va oltre l’aspetto squisitamente medico-scientifico e giunge fino a quello gestionale. Ci viene chiesto infatti di assumere la responsabilità della gestione della struttura e garantire che essa venga amministrata seguendo i criteri che assicurano sostenibilità delle aziende interamente private quali le nostre. Si tratta di un modello, il nostro, che suscita curiosità e ammirazione. È però per me un piacere e un dovere riconoscere che si tratta di giudizi che non riguardano solo noi, ma anche il sistema italiano in generale. La collaborazione pubblico privato cui è improntato il modello italiano di Servizio sanitario nazionale è un qualcosa che stimola anche una volontà di emulazione. Tutto questo fa di noi, all’estero, dei veri e propri attori di diplomazia economica e sanitaria che si fanno interpreti e promotori di un modello italiano di cura del paziente e di gestione delle strutture di eccellenza.
Lei ha lavorato a lungo nel settore energetico, tra Stati Uniti ed Europa. Oggi la sostenibilità è un elemento imprescindibile per lo sviluppo. L’Europa ha recentemente messo in campo una serie di iniziative che di fatto restringono le libertà di manovra delle imprese e degli Stati Membri nella politica energetica. Si tratta di un approccio top down, attuabile in sistemi economici avanzati come quello europeo: ritiene che tali politiche siano implementabili anche nei Paesi in via di sviluppo? Vi è un concreto rischio di tensioni sociali e geopolitiche?
L’Unione europea è inevitabilmente chiamata alla responsabilità di stabilire un quadro di regole condivise.
Penso che la sfida sia quella di scrivere regole che non siano camicie di forza e che non limitino la creatività degli imprenditori e la loro capacità di competere su un mercato globale.
È chiaro che i Paesi in via di sviluppo vivono una fase storica diversa e la creazione di un’area di libero scambio che unisca oltre 50 Paesi africani può essere, come lo è stata per gli europei decenni orsono, un’occasione storica per mettere insieme tutti i fattori di sviluppo e limitare il rischio di conflitti.
Va considerato che il continente è ricchissimo di materie prime e da questo asset può derivare una grande prospettiva economica se solo i Paesi africani avranno la forza di essere partner autorevoli e affidabili. Penso che il cammino intrapreso dall’Unione africana vada nella giusta direzione.
Dopo un lungo periodo di spending review, le principali potenze mondiali hanno avviato massicci piani di investimento, riconoscendo il ruolo del pubblico come leva per l’attrazione di investimenti privati. Il partenariato pubblico-privato può contribuire alla crescita e alla risoluzione delle crisi attuali?
Sono sempre stato un grande sostenitore del modello PPP: la partnership pubblico privato.
È secondo me il modo più efficace per mettere a fattore comune le migliori energie di cui si dispone nei due ambiti. Nella gran parte dei casi l’attore pubblico e quello privato non sono controparti e neanche concorrenti. Allora perché privarsi delle potenzialità di uno dei due? Credo peraltro si possa considerare un modello già sperimentato con successo in numerose circostanze. Certo, implica uno sforzo culturale che faccia superare l’approccio ideologico contrapposto di chi crede nel privato puro e di chi sostiene che l’unica risposta efficace possa arrivare da un pubblico non “contaminato” dal legittimo interesse al profitto del partner privato.
In assenza di risorse pubbliche sufficienti, poi, la soluzione diviene quasi obbligata. Sono convinto, comunque, che sia un pezzo importante del nostro futuro non solo a livello nazionale, ma anche internazionale; sia nella realizzazione di opere che nella erogazione di servizi.
A partire dalla crisi del 2008, il settore finanziario ha subìto un processo di regolamentazione. Ma forse non è stato sufficiente: recentemente su Stati Uniti ed Europa è calata l’ombra di una nuova, possibile, crisi finanziaria alimentata peraltro dalle crescenti incertezze sulla congiuntura economica. Ritiene che oggi il settore finanziario debba iniziare un nuovo percorso di mutamento, per meglio prestarsi all’attuale scenario economico e geopolitico, oltre che per guidare le nuove priorità di sviluppo?
Penso che la finanza abbia bisogno di regole giuridiche, ma soprattutto di regole morali e di condotte eticamente responsabili nei confronti dei risparmiatori e di coloro i quali affidano il frutto di sacrifici di una vita a soggetti e istituzioni considerate affidabili.
Il sistema finanziario e i suoi protagonisti devono meritare ogni giorno la fiducia dei risparmiatori e degli investitori.
Senza fiducia nascono atteggiamenti diffidenti, difensivi e cautelativi e viene meno l’impulso necessario a generare valore, sviluppo, crescita.
Per questo dico che è indispensabile il presidio delle regole ed è altrettanto indispensabile il presidio della morale.
Lei ha avuto una carriera straordinaria, ma resta legato alle sue radici. Nel recente passato si è impegnato per sostenere giovani talenti tunisini, in diversi campi. Qual è il messaggio che si sente di dare alle nuove generazioni, alle prese con sfide a livello professionale?
Ai giovani mi sento di dire: credete nelle vostre idee, siate disponibili a rischiare per esse, non abbandonate i vostri sogni. E poi: siate perseveranti. La vita è una lunga marcia e il successo vero non è una gara di 100 metri piani; è una maratona. Saranno la costanza e la perseveranza a fare la differenza. L’entusiasmo è indispensabile, ma senza il coraggio e la perseveranza non è sufficiente. La generazione dei giovani di oggi è protagonista della grande rivoluzione dell’intelligenza artificiale, la gran parte dei lavori di domani è oggi sconosciuta. È una sfida affascinante e avvincente che va vissuta fino in fondo e che può regalare, a chi la abbraccia, soddisfazioni straordinarie.